Fu vera gloria? Ai posteri L’ardua sentenza: nui
Chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
Del creator suo spirito
Più vasta orma stampar
Alessandro Manzoni, 5 maggio
Poche volte nel corso della storia Dio si è fatto uomo. O meglio, poche volte nel corso della storia l’uomo ha pensato di star di fronte a Dio. Gesù Cristo ne è l’esempio più alto, e una delle sue prime manifestazioni. Stanley Kubrick ne è l’esempio più geniale, e una delle sue ultime manifestazioni. Kubrick è stato indubbiamente uno dei più ossessivi perfezionisti della storia del cinema. Tutte le sue opere da “rapina a mano armata” fino ad Eyes wide shut sono perfettamente bilanciate. Mai una sbavatura. Mai una cosa fuori posto. Finito un film di Kubrick ci si sente rassicurati. Anche con la storia più inquietante e violenta, sentiamo che il quadro è completo. Non esistono obiezioni. Più che una purificazione dell’anima, i film di Kubrick sono una pacificazione dell’anima. Tutto ciò è dettato da un’evidente sensazione di equilibrio. Non semplicemente un’esibizione di funambolismo andata a buon fine. Bensì un armonioso equilibrio tra parti. Dall’apparato tecnico, fondamento della sua estetica, fino alle prove attoriali. Ciò che mi sconcerta di più di questa insolita sensazione di equilibrio è lo squilibrio narrativo che caratterizza il cinema di Kubrick. Le storie e i soggetti di Kubrick sono intrinsecamente squilibrati. Dall’irrazionale violenza di Alex Delarge, che deve essere riequilibrata attraverso la cura Ludovico
, allo squilibrio mentale del soldato Palla di lardo
, fino all’abissale follia in cui cade Jack Torrence. Eppure queste componenti narrative di “squilibri” è come se venissero riequilibrate attraverso l’estetica e attraverso la tecnica. Forse un paragone potrebbe chiarire questo concetto.
Proviamo a pensare al cinema di Lars Von Trier. L’esperienza cinematografica della sua filmografia è certamente disturbante. Arrivati alla fine di Dogville o Antichrist sentiamo una terribile sensazione di inquietudine mista a ribrezzo. Siamo agitati. Von Trier sceglie scientemente di usare camera a mano, illuminazione grigiognola, di raccontare storie sempre ad un passo dalla violenza estrema, al fine di disturbare la mente dello spettatore. Ecco, definirei l’esperienza cinematografica del cinema di Von Trier, “squilibrata”. Questo non accade, almeno personalmente, con la filmografia di Kubrick. Potrebbe essere la magistrale tecnica cinematografica che ad alcune caratteristiche costanti, come la camera fissa, the Kubrick zoom, i grandangoli, affianca un elemento specifico per ogni film, come le luci interamente naturali per Barry Lyndon (con l’eccezionale partecipazione dell’obbiettivo Zeiss Planar 0.7/50mm, realizzato per le missioni dell’Apollo) oppure la steadycam, perfezionata dal direttore della fotografia John Alcott per Shining. Insomma, lo straordinario equilibrio tecnico, l’armonia dei componenti, sembra abbracciare e rinchiudere in sé lo squilibrio tematico-narrativo della sua filmografia. È necessario, però, prendere un film come esempio di questa risoluzione dello squilibrio in equilibrio. Quale opera se non quella più disturbante e squilibrata: Shining? Kubrick non sta parlando solamente di fantasmi. Kubrick non vuole raccontare dei poteri sovrannaturali di Danny. L’adattamento cinematografico del romanzo di King ha tutto fuorché l’aspetto di un horror fantasmatico. L’elegante mano di Kubrick segue la psiche di un triangolo familiare e del rapporto con il loro spazio, orchestrando un capolavoro psicologico. Jack, Wendy, Danny e l’isolato Overlook Hotel. Lo squilibrio, nella dimensione diegetico-narrativa, è evidentemente mentale. Individuare una causa della degenerazione psicologica di Jack Torrence è impossibile e forse controproducente. Perché controproducente?
Un sogno non è mai soltanto un sogno
Stanley Kubrick
Uno dei pochi aforismi di Kubrick. È l’enigmaticità del genio e dell’opera. Se un sogno non è mai soltanto un sogno, allora cos’altro è? Lo squilibrio mentale di Jack è provocato dall’isolamento? Dal blocco dello scrittore? Dalla moglie che interrompe il suo silenzio contemplativo? Da un passaggio di testimone fantasmatico? Se i dubbi interpretativi avessero una risoluzione allora lo squilibrio della storia verrebbe riequilibrato dalla comprensione di cause ed effetti. Quel sogno che non è mai soltanto un sogno sarebbe effettivamente qualcos’altro. Ma siamo sicuri che saremmo rimasti soddisfatti? Un’esperienza cinematografica per essere equilibrata deve presupporre una risoluzione narrativa?
Il piccolo Danny ha portato con sé il triciclo. Un mezzo stabile. È pronto per esplorare, per attraversare i lunghi corridoi dell’Overlook Hotel. Danny comincia il suo percorso, avanza velocemente. Il silenzio dell’Hotel viene interrotto solo dall’alternanza di suono delle ruote. Ad un tempo un suono pesante e invasivo, le ruote che si abbattono sul parquet. Ad un altro tempo un suono lieve e smorzato, il rumore delle ruote attutito dalla morbidezza dei tappeti. Una disturbante alternanza di suoni come specchio di una psiche oscillante.
Mentre Danny corre lungo i corridoi, seguito da una misteriosa presenza (fantasmi o noi spettatori?), Jack contempla il vuoto abbagliato dalla luce del giorno, Wendy prova ad ascoltare la radio. Veniamo trascinati attraverso il fluido movimento della steadycam nei labirinti psicologici dei tre personaggi. Questa struttura labirintica potrebbe spaventare lo spettatore capriccioso, che aspetta di poter uscire dal labirinto per porre fine all’angoscia del mistero, alla paura di finire contro una siepe e non poter tornare indietro. Ma noi siamo dentro il labirinto o lo sorvoliamo dall’alto? Noi siamo Danny e Wendy che cercano l’uscita in mezzo alle alte siepi o siamo Jack che osserva dall’alto il modellino del labirinto?
È qui che si gioca l’esperienza cinematografica. L’immersione in Shining, attraverso lo sguardo sovrastante di Kubrick, non è squilibrante. Lo sarebbe nel momento in cui pensassimo di dover uscire dal labirinto, di sfuggire alla terrificante esperienza di insoddisfazione. Ma Kubrick non ci vuole dentro l’Overlook hotel, non ci vuole incoscienti della finzione cinematografica. Il suo genio ci dispone all’interno di un flusso. È per questo che accettiamo i vari errori/non-errori del film, raccontati dal documentario Room 237. È per questo che Kubrick si è impuntato sulla sinuosità di movimento della steadycam. Non voleva terrorizzarci raccontandoci lo squilibrio, facendoci sentire una sensazione di disturbo e fastidio alla fine del film. Kubrick ci accompagna mano a mano al di sopra della storia, non ci scaraventa violentemente dentro l’Overlook. Paradossalmente ci sentiamo equilibrati**.
Shining è solo la punta dell’iceberg della filmografia kubrickiana. È l’emblema del suo genio. Un artista che attraverso uno sconcertante talento cinematografico, riesce a tranquillizzare uno spettatore terrorizzato dallo squilibrio dell’horror. Kubrick non cammina in punta di piedi su un filo sottile cercando di mantenere un equilibrio smussato da un vento di ponente. Kubrick avanza a testa alta, indifferente al burrone che sta sotto i suoi piedi, trasformando in equilibrio tutti gli squilibri che ha voluto raccontare.