Quando si tratta di affrontare il tema dello squilibrio sociopolitico in maniera diretta, umoristica e piena di stile, Spike Lee nei propri film (o joints
, come li definisce) non si tira di certo indietro.
Stati Uniti, 1972: il poliziotto afroamericano Ron Stallworth si infiltra nel Ku Klux Klan grazie a una telefonata in cui si finge un suprematista bianco che condivide le posizioni razziste, antisemite e omofobe del Klan. Quando i membri della cellula locale gli richiedono un incontro faccia a faccia, Ron è costretto a ricorrere all’aiuto del suo collega bianco di origini ebraiche Flip Zimmerman, i cui tratti somatici sono (ironicamente) più conformi all’ideologia della “superiorità ariana”. Così, i due detective indagano sui piani di terrorismo domestico del Klan fingendosi la stessa persona, Ron attraverso la cornetta del telefono e Flip sul campo.
La premessa assurda della sceneggiatura di BlacKkKlansman (2018), sorprendentemente tratta dalla vera storia del detective Ron Stallworth e premiata agli Oscar 2019, viene bilanciata con maestria da Spike Lee: il tono del film è sempre in perfetto equilibrio tra momenti di comicità e scene drammatico-riflessive, tra finzione e fatto reale, tra passato e presente.
È un film decisamente americano, il cui messaggio ultimo risulta però universale, come dimostra la vittoria del prestigioso Gran Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes del 2018.
La trama costruisce un vortice di squilibri attorno al protagonista. Ron è un afroamericano che si ritrova a dover indagare sul Ku Klux Klan; ma Ron è anche un poliziotto sotto copertura che si infiltra a un comizio di Kwame Ture (ex-membro delle Pantere Nere) sul tema dei diritti civili, durante il quale gli studenti del Colorado College vengono incitati ad armarsi in previsione di una guerra tra razze
. Qui, Ron conosce Patrice Dumas, presidentessa dell’unione studentesca nera, e instaura una relazione con lei. Il protagonista, di ottica moderata, si trova così nel mezzo di due posizioni radicali ed opposte. Gli attivisti neri chiamano maiali
i poliziotti, mentre i suprematisti bianchi definiscono babbuini
gli afroamericani: nessuna delle due parti è disposta a umanizzare la controparte. Entrambe parlano di guerra, di riconquista del potere, di oppressione.
Sarebbe sbagliato, tuttavia, pensare che Lee voglia mettere sullo stesso piano l’ideologia folle del Ku Klux Klan con l’attivismo degli studenti afroamericani. Ciò che Lee punta ad evidenziare attraverso la vicenda filmica è piuttosto la radicalizzazione a cui porta il razzismo, lo squilibrio che esso alimenta, la divisione che crea sulla base di cose insignificanti e il modo in cui fa sembrare impossibile trovare un equilibrio.
Sono ebreo, ma non mi hanno cresciuto da ebreo. Non faceva parte della mia vita, non ho mai pensato al fatto di essere ebreo. Nessuno intorno a me era ebreo. Non sono andato ai Bar mitzvah, non ho avuto un Bar mitzvah. Ero solo un ragazzino bianco come tanti. E ora mi ritrovo in uno scantinato a negarlo. Non ci ho mai pensato molto, ma ora ci penso continuamente. Penso ai riti e al retaggio.
Lee si serve di meccanismi formali per renderci partecipi dello squilibrio, basti pensare alla scena del comizio di Kwame Ture al Colorado College: Ron vi partecipa in quanto poliziotto sotto copertura per accertarsi che le intenzioni degli attivisti non siano di natura violenta. I volti degli studenti sono inquadrati e illuminati frontalmente mentre assorbono le parole di Ture, sospesi e fluttuanti contro un fondale scuro; poco alla volta si accostano l’uno all’altro: se prima le loro singole voci, le loro singole esperienze, erano deboli, ora si fondono in un unico solido gruppo grazie alla guida di Ture.
Qualche scena dopo, Ron entra in contatto telefonico direttamente con il capo del Ku Klux Klan, David Duke, il “grande mago” e direttore nazionale che presiederà alla sua iniziazione a membro del Klan. È proprio attraverso questa telefonata che abbiamo un assaggio più stilistico dello squilibrio formale che Spike Lee trasmette attraverso la macchina da presa. Il dialogo telefonico tra Ron e Duke è costruito su un alternarsi di inquadrature inclinate, sbilanciate rispetto alla frontalità delle riprese precedenti, che sottolineano ancor di più l’assurdità di ciò a cui stiamo assistendo.
La discrezione non è decisamente una caratteristica della regia di Lee, che infatti preferisce sbatterci in faccia i parallelismi che instaura. Per celebrare l’iniziazione al Klan, i membri assistono allegramente alla proiezione di Nascita di una nazione di D.W. Griffith, film dei primi del ’900 famigerato per i contenuti fortemente razzisti e misogini. Tramite un montaggio alternato (impiegato non a caso anche nel film di Griffith) assistiamo in contemporanea al resoconto delle effettive brutalità perpetrate dal Ku Klux Klan: un attivista afroamericano narra dell’inumano assassinio di un giovane ragazzo nero che fu accusato dalla comunità bianca di aver violentato e ucciso una donna bianca. I giurati lo dichiararono colpevole dopo una discussione di soli quattro minuti; l’attivista racconta agli studenti del Colorado College di come la folla avesse poi aggredito, pugnalato, picchiato, mutilato e infine dato fuoco al ragazzo. Il fatto più raccapricciante è che trasformarono l’omicidio in una sorta di evento, di parata, permettendo addirittura ai bambini di uscire prima da scuola pur di assistervi. L’attivista sostiene che la folla commise tali atrocità anche perché si sentì legittimata nelle proprie azioni da un blockbuster uscito l’anno prima – Nascita di una nazione.
Qui Lee ci prende per le spalle e ci fissa dritto negli occhi mentre ci mette in guardia dallo squilibrio che può generare il cinema, dal potere che esso possiede in quanto forma d’arte, dalle capacità che detiene nel legittimare e normalizzare pericolose ideologie.
Sono molteplici i riferimenti alla politica contemporanea, non a caso infatti il film è ambientato nel 1972, durante la campagna per la rielezione del presidente Nixon, che immediatamente ci rimanda alla più recente corsa per il secondo mandato di Donald Trump. Nella scena che segue l’iniziazione al Klan, David Duke proclama a gran voce Prima l’America!
. Ma il suo concetto di americano è distorto: infatti, gli afroamericani sono anch’essi americani, così come gli ebrei-americani sono americani, e così lo sono tutti gli altri americani che Duke disprezza sulle basi di etnia, sessualità e religione – ciò che Duke intende davvero è Prima gli americani del Ku Klux Klan!
. In questo caso siamo noi a percepire lo squilibrio nel riscontrare una così terrificante similarità tra la ideologie del passato e la retorica che spesso sentiamo rigurgitare al giorno d’oggi.
La vicenda termina con lo sventato attentato alla vita di Patrice e con l’arresto del poliziotto razzista che l’aveva minacciata e aggredita; sembra che finalmente le cose abbiano trovato un certo equilibrio, che un cambiamento sia effettivamente possibile. Tuttavia, il capo della polizia ordina lo scioglimento della divisione di Ron e Flip per mantenere il fatto lontano dagli occhi del pubblico… ancora una volta ci troviamo di fronte all’immutabilità di un sistema che preferisce fingere di non vedere.
Prima di chiudere definitivamente il capitolo della propria vita dedicato all’indagine, però, Ron decide di fare un’ultima chiamata a David Duke, per rivelargli finalmente la propria identità ed etnia. Durante la catartica telefonata, vediamo Ron circondato dalle risate e dal supporto dei suoi colleghi; Duke, invece, è solo e imbarazzato nel proprio ufficio. Nella scena successiva, mentre Ron e Patrice discutono del loro futuro insieme, vengono interrotti da un colpo alla porta. Entrambi impugnano le armi. Il tono si fa di colpo serio, terrificante; c’è una minaccia sospesa nell’aria, e noi la percepiamo, perché forse abbiamo già visto scene simili accadere nella vita reale. Qui, in una ripresa tipica dello stile di Lee (in cui sia l’attore che la telecamera vengono posizionati su un dolly, creando un movimento onirico e inquietante) Ron e Patrice avanzano insieme verso la porta spalancata che lascia intravedere una croce in fiamme – sono uniti contro la minaccia del Klan.
Queste ultime due sequenze non sono contenute nell’autobiografia di Stallworth, ma sono un’invenzione degli sceneggiatori per veicolare il messaggio del film: nero o bianco, cristiano o ebreo, attivista o detective, dobbiamo essere unitз per poter sconfiggere il razzismo e la discriminazione.
Il film si conclude con le immagini dalle reali manifestazioni dei suprematisti bianchi registrate a Charlottesville nel 2017, dove vediamo svolazzare bandiere confederate e svastiche, intramezzate dalle parole di giustificazione dell’ex presidente americano Donald Trump e del vero David Duke.
Com’è sempre stato solito fare nel corso della propria carriera, Spike Lee anche con BlacKkKlansman mira a provocare l’audience, a confrontarci frontalmente, a porre delle domande che ci incoraggino al dialogo. Perché queste ideologie razziste continuano a persistere nel tempo? Come riescono ad insinuarsi tanto nella mente di certe persone? E sono proprio queste questioni che al termine del film ci incoraggiano a fare i conti con lo squilibrio che viviamo ogni giorno: in un’epoca in cui la divisione è sempre più netta, in cui si è sempre meno inclini al dialogo, in cui le cose sono o bianche o nere, o moderate o radicali… è possibile raggiungere un qualche tipo di equilibrio?