Donna è soggetto

I femminicidi e le violenze di genere riempiono dolorosamente le pagine di cronaca quotidiane, rinnovando a cadenza regolare la paura di essere nata donna. Esistono molteplici e complesse forme di abuso (dalla violenza fisica a quella psicologica, dalle molestie sessuali al catcalling), ma condividono tutte un’unica radice: un sistema patriarcale che nutre disuguaglianze e stereotipi di genere.

La violenza di genere, infatti, implica uno specifico retaggio culturale che tende verso la definitiva inferiorizzazione della donna a mero oggetto del desiderio maschile. In questo senso, è preoccupante la narrazione che ci viene continuamente proposta di questi gesti brutali.

Quante volte capita di leggere sulle principali testate giornalistiche inquietanti descrizioni, quasi fiabesche ed innocenti, di uomini che per un presunto “amore” non ricambiato decidono di uccidere la propria “amata”. Continuare a promuovere una visione così distorta e tossica dell’amore–che amore non è–non fa altro che normalizzare l’idea per cui gli uomini siano legittimati ad usufruire delle donne come oggetti di proprietà e, allo stesso tempo, rende il processo di consapevolezza e denuncia da parte della vittima ancora più complicato di quanto già non sia. Quante volte, invece, capita di sentire al telegiornale opinionisti (rigorosamente uomini bianchi, etero e cisgender, ergo la massima rappresentazione del cieco privilegio) che alludono in maniera maliziosa ai vestiti indossati dalle vittime di stupro, come a voler intendere che una minigonna sia una chiara rappresentazione della volontà di essere violentate.

In questo fin troppo comune comportamento si cela la millenaria dicotomia che categorizza tutte le donne in due necessari scompartimenti: creature angeliche e femme fatale. Però, ciò che più di tutto fa rabbrividire è che non importa che tu sia categorizzata come la sensuale Elena Muti o la pura Maria Ferres, poiché la società patriarcale (che, per continuare l’allusione a Il Piacere di D’Annunzio, è rappresentata da Andrea Sperelli) continuerà a descrivere le donne come oggetti desiderabili, ma mai come soggetti attivi. Credere che il proprio modo di vestire, o una spiccata consapevolezza della propria sessualità, siano comportamenti rivolti esclusivamente alla richiesta di uno sguardo di approvazione maschile, non permette di essere libere.

Questo dualismo è soffocante e limita i comportamenti quotidiani delle donne a una spasmodica attenzione verso tutto ciò che si dice, fa, o indossa. Provate a chiedere a vostra madre, alle vostre sorelle, o alle vostre amiche, se hanno mai avuto paura nell’uscire da sole, anche solo per qualche minuto, di notte; oppure, se si sono mai sentite in dovere di cambiarsi i vestiti prima di uscire perché “troppo provocanti”; e ancora, se hanno mai dovuto cambiare strada, anche in pieno giorno, per il terrore di poter trovare i soliti fischi di approvazione nel tragitto.

Educare nuove e vecchie generazioni a riconoscere questi automatismi patriarcali, anche quelli apparentemente più insignificanti, è necessario per concretizzare un solido cambio di rotta. Ed è in questo senso che il superamento degli stereotipi di genere assume un ruolo fondamentale. Sono proprio i contenitori socialmente determinati a costruire la piramide gerarchica in cui viviamo, dove anche gli uomini sono in realtà portatori di una libertà fittizia. Ciò che permette agli uomini di introiettare la credenza che le donne siano oggetti da possedere è, infatti, una specifica descrizione del genere maschile che fa dei propri pilastri i concetti di virilità, aggressività e performatività. Le donne, invece, vengono educate a potersi definire in funzione di due sole caratteristiche, sensualità e bellezza, che riducono così la complessità dell’essere (soggetto) a una forzata identificazione con il corpo (oggetto).

La violenza di genere, quindi, rappresenta la punta finale, dolorosa e brutale, di un iceberg che giace in abissi profondi. Si tratta di dinamiche intimamente connesse alla società in cui abitiamo, motivo per cui una demolizione lenta ma radicale di questo sistema è oltremodo necessaria: spogliarci dei costrutti di cui siamo così visceralmente intrisi non è semplice, ma è l’unico modo per tornare a respirare.

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